Storia del consumismo. Il 27 novembre 1957 nasceva il primo “supermercato” italiano
Era il 27 novembre 1957 – tempi di Carosello e di costituzione della CEE – quando a Milano, in una ex officina di viale Regina Giovanna, veniva aperto il primo supermercato italiano: il primo dei “Supermarkets Italia” (che sarebbero poi diventati Esselunga), dei tre fratelli Caprotti (Bernardo, Guido e Claudio), in società con Marco Busnelli, la famiglia Crespi e Nelson Rockefeller.
L’incontro tra Guido Caprotti e il magnate americano, avvenne quasi per caso alla fine del 1956. Come ricorda Panorama, in un articolo del 2016, “all’epoca Rockefeller era alla guida della The International Basic Economy Corporation (IBEC), una finanziaria che si occupava di allocazione di capitali nei paesi in via di sviluppo, con intenti che cercavano di conciliare il capitalismo con la filantropia tramite la creazione di lavoro e di condizioni economico-sociali a favore delle popolazioni interessate. Quando arrivò a Milano, Rockefeller era già in affari da un decennio nei paesi dell’America latina ed era in cerca di nuovi mercati in espansione”.
L’Italia, prossima al “boom” economico (che scoppierà propriamente nel 1958), era dunque un terreno fertile per importare un modello di consumo già presente negli USA a partire dagli anni’30 del Novecento, come risposta alla crisi del 1929. E’curioso rileggere, in un articolo dal titolo “Nascita e sviluppo della distribuzione alimentare moderna” – scritto proprio da Bernardo Caprotti per l’Accademia dei Georgofili – quelle che furono le pre-condizioni tecnologiche che portarono all’affermazione dei “supermarket”: la lampadina a incandescenza di Edison del 1880 (tutto va ben illuminato), la catena di montaggio industriale di Ford e l’invenzione del packaging da parte della Nabisco, la National Biscuit Company americana, che aveva l’esigenza di evitare il deterioramento delle gallette distribuite ai pionieri impegnati nella conquista del West. Ma poi anche il “registratore di cassa” di James Ritty (1880) e, successivamente, la refrigerazione (prima dei banchi self-service per i deperibili nei punti vendita e poi dei frigoriferi per le famiglie) e i trasporti, con la progressiva diffusione dell’auto per tutti, che facilita il raggiungimento dei supermercati anche in aree periferiche e il carico di spese abbondanti, che eccedono il consumo quotidiano (com’era invece abitudine nei negozietti di quartiere).
E’sempre Caprotti, nella sua attenta ricostruzione storica, ad elencare le caratteristiche fondamentali per il successo dei primi supermarket americani di Michael Cullen: ubicazione periferica ma accessibile in un capannone dall’affitto bassissimo; parcheggio gratuito; grande superficie di vendita; grande assortimento ma ricarichi minimi (circa il 5%!); molti prodotti “di marca” trascurati dalle catene di negozi (che spingevano invece i propri brand); niente credito a nessuno; tantissima pubblicità. Una formula che pare non essere cambiata, nella sostanza, nemmeno oggi, a sessant’anni di distanza.
Secondo gli storici la spesa “all’americana” tardò però ad imporsi in Italia e nei paesi mediterranei. Il boom non bastò, da solo, a cancellare le vecchie abitudini del Belpaese, dove fino ancora ai tardi anni Cinquanta il latte si comprava sfuso, come la frutta, la verdura, la carne e il pane. Altre due condizioni furono dunque determinanti nei decenni successivi: prima l’accesso crescente delle donne al lavoro (che sottrasse tempo libero alla cura del “focolare domestico” creando la necessità di concentrare la spesa in un solo momento della settimana o quasi) e poi l’avvento delle televisioni commerciali, negli anni ’70 e ’80, nate – secondo una tesi storiografica credibile – proprio dal bisogno, da parte delle grandi aziende alimentari e di altri settori, di una pubblicità su scala nazionale in grado di influenzare e incrementare le vendite nei supermercati.
Il simbolo del nascente consumismo diventa il carrello, che rivoluziona le modalità di acquisto: come racconta un bel video di RAI Storia, “Il Carrello e il Supermercato“, “è il cliente ora a effettuare alcune delle attività in precedenza a carico dei negozianti o dei commessi, come il prendere la merce dagli scaffali”. E si impongono anche in Italia tecniche di marketing importate dagli Stati Uniti, come “il collocare accanto alla cassa prodotti-tentazione o prodotti che spesso ci si dimentica di comprare, dalle pile alle lamette da barba”, o come “la messa in evidenza di prodotti civetta a prezzi particolarmente allettanti, che trainano anche altre merci a costi non particolarmente convenienti” o, ancora, “la collocazione in posizioni di particolare visibilità dei prodotti oggetto di campagne pubblicitarie, invitando il cliente ad un acquisto, magari non indispensabile, per associazione mentale”. Ma soprattutto è “l’imposizione al cliente e al suo carrello, dall’ingresso alle casse, di un percorso obbligato che porta con sé lo stimolo a tanti acquisti non programmati“, che fa la differenza.
E’dunque inevitabile, pur senza voler demonizzare la grande distribuzione e accusarla di tutti i mali del mondo, associarla a quel fenomeno del consumismo così difficile da sradicare, nonostante sia una delle evidenti cause dei problemi ambientali, sociali ed economici che affliggono il Pianeta. In sessantanni la GDO ha saputo astutamente cambiare pelle pur di non cambiare modello: dai prodotti “locali” a quelli biologici sugli scaffali fino a casi come Eataly o Ecor NaturaSì o la Biobottega, dove cambiano i prodotti e le suggestioni, ma non il modello di consumo, fatto di sconti a doppia cifra, promozioni, tessere fedeltà ecc.
La domanda è: sarà ancora possibile guardare indietro per puntare avanti? Recuperare un “commercio di prossimità” dal volto più umano, dove i produttori vengano remunerati ad un prezzo equo e le persone (“i consumatori”) capiscano che spendere la stessa cifra comprando qualcosa in meno a volte vuol dire avere molto di più: dalla reale qualità del prodotto, al rapporto di fiducia con chi te lo vende, alla riattivazione di filiere produttive locali e artigianali perdute, che mantengano la ricchezza e il lavoro sul territorio. Quanto vale tutto ciò? Il nostro network ci sta provando con il progetto “Greeneria“, una sfida in totale controtendenza con il diffondersi inarrestabile dei centri commerciali e degli hard discount. Siamo e probabilmente resteremo una formichina, nella nostra nicchia e con la nostra convinzione che per recuperare bellezza e salubrità nel mondo anche “il contenitore” conta – ovvero non solo cosa vendi, ma dove lo vendi (un capannone in cemento armato che consuma suolo non è la stessa cosa di un vecchio edificio recuperato in bioedilizia). Resteremo piccoli? Insignificanti? Può darsi, ma non dimentichiamo cosa è in grado di fare il battito d’ali di una farfalla…
Andrea Gandiglio*
*Direttore editoriale Greenews.info e amministratore Greengrass Srl (progetto “Greeneria”)