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Non tutto il barile vien per nuocere. La green revolution in Medio Oriente Top Contributors

Con il reportage di Bruno Pampaloni dal Golfo Persico continuano le “impressioni di viaggio” degli inviati di Greenews.info per cercare di capire meglio come la sostenibilità ambientale venga vissuta e applicata nei principali paesi del mondo.

Pozzi petroliferi in Arabia Saudita, Courtesy of RobertoDeFicisPer capire come il mondo è cambiato in fretta bisogna venire da queste parti. Perché nel Golfo Persico tutto è in rapida e convulsa trasformazione. Più di tutti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar sembrano infatti giganteschi cantieri a cielo aperto. Grattacieli, isole artificiali, costruzioni moderne e ipertecnologiche, ponti, strade, aeroporti, porti, megacentri commerciali, strutture e infrastrutture avveniristiche, talvolta eleganti e “firmate” dalle archistar (ma spesso senza’anima o senza una ragione) raccontano di una grandeur che vorrebbe affrancarsi dal ruolo di semplice concubina del petrolio. Nulla, però, sembra più virtuale di questi solidi e giganteschi monumenti all’emancipazione da oro nero. Cattedrali sorte in un deserto che ne reclamava l’esistenza per trasformare le inospitali dune in un avatar dell’Occidente.

Ma non tutto il barile vien per nuocere, verrebbe da dire. Perché negli Stati arabi del Golfo ogni cosa nasce per imitazione. E’ così che nel Golfo nascono copie del mondo reale. C’è la Riviera araba, la Toscana araba, la Hoollywood araba,  il Louvre arabo, una pista da sci in pieno deserto. Perché mai, insomma, dovrebbe mancare anche la green revolution araba? E allora ecco le copie, e poi le copie delle copie, in un crescendo esponenziale che lascia sbigottiti. Perché il desiderio di emanciparsi, attraverso il possesso di meri simboli della modernità, l’ambizione di affrancarsi dalla condizione di colonie rimaste ai margini della Storia per troppo tempo costringono gli Stati del Golfo a dotarsi di  tutto quello che fa innovazione o tendenza, che sa di buon gusto e savoir vivre.

Non basta più lo sfoggio di una Ferrari o di un superpanfilo per farsi accettare (o invidiare) in società. Ora l’ambizione spinge a reclamare un posto che conta nel club esclusivo di chi governa il mondo. Un smania che contagia soprattutto l’Arabia Saudita, leader rispettato ma non troppo amato dagli altri Paesi della regione. Ecco perché nel Golfo c’è molto spazio per la green revolution. Non si tratta solo di business. Che, peraltro, qui conta tantissimo. Se non fosse un affare, se l’universo mondo non vi si fosse buttato a corpo morto, nessun governante si sarebbe fatto certo promotore della Rivoluzione Verde. Money first. Tuttavia, da queste parti il saper apparire è pre-condizione ed essenza stessa del comando.

E cosa, meglio della green revolution, apre le porte a un futuro ricco di promesse e povero di sensi di colpa, perché seppelliti da grandiosi progetti verdi confusi in un orizzonte di pozzi petroliferi? Così gli Emirati Arabi Uniti – oltre ad accordarsi con il Bahrein per ridurre le emissioni inquinanti dagli impianti di perforazione – sono diventati la speranza di ogni traguardo ambientale. Come la mitica Masdar City – città da 50.000 abitanti a emissioni zero progettata da Foster&Partners. Resa possibile da un bilancio statale che, secondo alcuni analisti, si regge con il petrolio oscillante intorno ai 40-45 dollari al barile. Per altri, addirittura, anche intorno a molto meno. Ma probabilmente esagerano.

Comunque stiano le cose il presente ricco di idrocarburi è qui e il futuro verde (se sarà) non potrà ignorare quest’angolo di mondo. Anche perché, per qualche decina d’anni ancora, (tempo stimato dai più pessimisti per l’esaurimento dell’oro nero), si potranno sempre trovare capitali freschi da investire nel rutilante mondo della green economy. Senza dimenticare però che gli Emirati saranno il primo stato del Golfo a dotarsi di energia nucleare grazie alla tecnologia sudcoreana. La centrale numero uno è già stata annunciata per il 2017. E per via del famoso effetto imitazione è presumibile che molti altri Stati li seguiranno. A cominciare probabilmente dall‘Arabia Saudita. Che però punta molto sulle energie rinnovabili. Tanto che,  per inventarsi un futuro meno dipendente dal petrolio, i sauditi riflettono anche sullo sfruttamento dell’energia solare. Fonte inesauribile, presente in abbondanza a queste latitudini. Proprio lo scorso anno  due società petrolifere – la saudita Saudi Aramco e la giapponese Showa Shell Sekiyu – hanno pensato di realizzare impianti pilota per fornire elettricità a piccole comunità locali.

Ma una Rivoluzione senza Educazione non sarà mai vera rivoluzione. Non a caso un capitolo importante nei progetti di tutti i governi locali è quello di formare una classe dirigente. Riad si dà da fare favorendo le imprese straniere impegnate nella qualificazione tecnica dei cittadini del Regno oppure inviando, a proprie spese, i giovani sauditi nelle migliori università estere. Ma il vero e proprio asso l’Arabia Saudita lo ha calato con l’inaugurazione a Thuwal (località sul Mar Rosso situata a circa 80 chilometri a nord di Gedda) della King Abdullah University of Science and Technology (Kaust). Un’istituzione che – oltre a Bioscienze, Bioingegneria, Matematica Applicata, Ingegneria – punta decisamente su Risorse, Energia e Ambiente.

Si resta affascinati da come sono stati allestiti gli spazi del centro: trentasei chilometri quadrati di palazzine per l’insegnamento e i servizi circondate da migliaia di palme. Dove prima c’era deserto ora, invece, sorge un istituto internazionale dedicato all’innovazione. E attrezzato con il meglio della tecnologia di settore. Un miliardo e mezzo di dollari la spesa iniziale e una cospicua dote finanziaria annuale per la gestione ordinaria. Sumitomo Chemical, Boeing, IBM, Hong Kong University of Science and Technology e Biblioteca del Congresso statunitense sono tra i partner dell’iniziativa. Se poi si scava proprio in fondo, si capisce come a tirare le fila vi sia la lunga mano dell’industria petrolifera. Presidente del Board of Trustees della Kaust è infatti Ali Al-Naimi, ministro del petrolio saudita. Ma visto che, come lui stesso ha dichiarato “la Kaust rappresenta un punto di partenza fondamentale per lo sviluppo del Paese” perché “l’Arabia Saudita deve assolutamente pensare a diversificare la propria economia” meglio non star troppo a cavillare. Come insegnava Confucio, non occorre sofisticare sul colore del gatto perché l’importante è che prenda il topo. Insomma, gli affari sono sempre affari e anche la green revolution deve saper accettare qualche compromesso.

Anche con chi è promotore di un colossale investimento immobiliare come la United Development Company – la società che gestisce The Pearl Qatar (l’isola artificiale con 32 chilometri di costa e appartamenti esclusivi di fronte alla costa di Doha)? Che ha pensato recentemente di organizzare la giornata dell’ambiente, con tanto di premiazione di studenti universitari, alcuni provenienti da atenei stranieri. Coinvolte la  Georgetown University School of Foreign Service, la Indira Gandhi National Open University, la Texas A&M University at Qatar, Michael E. Debakey High School for Health Professions – Qatar. Lo scopo resta nobile: informare la classe dirigente del futuro sulle best practices da attuare soprattutto in merito alla conservazione dell’acqua, un bene molto prezioso in tutto il Medio Oriente.  

Bruno Pampaloni

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