HUMANA, il valore sociale e ambientale di un abito usato
Liberarsi dei vecchi jeans fuori taglia, del cappotto o di altri capi del guardaroba attraverso la filiera del riuso può provocare diversi effetti positivi sul nostro pianeta. A iniziare dalla riduzione dei costi economici ed ecologici legati alle discariche o all’incenerimento dei rifiuti. Se gli abiti poi sono in buone condizioni viene meno anche il senso del riciclo (inteso come processo industriale) per recuperare le fibre che, seppur lodevole, provoca comunque un impatto sull’ambiente. Per raggiungere l’obiettivo di una filiera tessile circolare in Italia serve però una piccola grande rivoluzione culturale rispetto ai paesi del Nord Europa, dove è consuetudine acquistare abiti usati e dove prosperano i negozi di seconda mano.
A cercare di sostenere, concretamente, questa rivoluzione nel Belpaese, ci prova dal 1998 la filiale nazionale di HUMANA People to People, l’organizzazione umanitaria di origine danese che nel 2016 ha raccolto abiti usati per oltre 20,3 milioni di chili, arrivati a 21 milioni nel 2017, grazie ai cittadini che li conferiscono in circa 5.000 contenitori collocati in 49 province. Un lavoro che coinvolge ben 1.180 partner, ovvero amministrazioni comunali, consorzi ed imprese del settore utilities.
All’associazione sono orgogliosi del metodo circolare che hanno contribuito a mettere in moto: “Più del 70% dei vestiti è riutilizzato in quanto tale. Il 25% circa è riciclato per recuperare le fibre e solo una minima parte, meno del 5%, è destinata al recupero energetico“. A fornire i numeri è la responsabile della comunicazione Stefania Tiozzo, che sottolinea le ottime performance in termini di impatto ambientale: “Nel 2016 la CO2 risparmiata è stata pari a 73,2 milioni di chili e nello stesso anno abbiamo permesso un risparmio di acqua di oltre 122 miliardi di litri“. Ma per tener fede alla multidimensionalità dello sviluppo sostenibile (come suggerisce l’economista e sociologo Ignacy Sachs), a Humana si rendicontano anche l’impatto economico – 3 milioni di euro risparmiati dalle amministrazioni pubbliche – e quello sociale, con 53 progetti di sviluppo sostenuti nel 2016, in particolare in Africa ed Asia, per un valore di 1,4 milioni di euro.
L’aspetto determinante dell’attività di Humana resta però la vendita degli abiti recuperati nei negozi. “Non è stato facile in Italia, ma complice la crisi e l’emergere di una maggiore sensibilità ambientale, negli ultimi anni siamo cresciuti in modo esponenziale: allo storico negozio di Milano, aperto nel 2006, dal 2014 se ne sono aggiunti altri 5. Abbiamo aperto anche a Roma e Torino. Tre sono dedicati al vintage, con abbigliamento degli anni 60/70/80/90 e altri tre li definiamo second hand essenzialmente con modelli della stagione precedente”. Stefania Tiozzo ci tiene a sottolineare che la filosofia ambientale si tocca letteralmente con mano anche nell’arredamento: “E’ realizzato con materiali riciclati”. Sui negozi si punta molto perché la vendita al dettaglio permette di ottenere margini più alti e quindi “più risorse per i progetti”.
La scelta della vendita per raccogliere fondi fa parte della mission generale dell’organizzazione. Una parte degli abiti estivi, adeguati al contesto climatico, viene spedita infatti alle filiali africane: 1.322.500 chili nel 2016, divisi tra Mozambico, Zambia, Malawi ed Angola. Qui i vestiti sono venduti dalle consociate locali di HUMANA a prezzi contenuti. L’obiettivo è quello di rendere accessibili capi di buona qualità a prezzi ridotti, ma senza creare quell’assistenzialismo che si verificherebbe se gli abiti venissero regalati: “L’idea alla base della nostra filiera è di creare sviluppo e consentire l’avvio di un circuito economico virtuoso anche nei paesi africani. Gli abiti sono donati solo in casi di emergenza – discorso che vale anche in Italia – ma si preferisce vendere, creare occupazione e investire gli utili nei progetti di sviluppo”.
Al di là delle considerazioni umanitarie e delle riflessioni sui metodi della cooperazione internazionale, il metodo Humana ha un grande risvolto culturale e ambientale per il nostro Paese perché, come si diceva, promuove il consumo del “seconda mano” e dell’abito usato. La raccolta degli abiti usati, negli ultimi anni, ha riempito tuttavia le pagine della cronaca giudiziaria grazie a inchieste che hanno svelato traffici sporchi e affari poco trasparenti che hanno indignato i cittadini. Per questo a Humana Italia ci tengono a spiegare le caratteristiche del fenomeno: “Il cittadino deve essere consapevole e deve essere più attento nel capire a chi dona, così come tutte le amministrazioni che devono attuare controlli ferrei su tutta la filiera– sottolinea Tiozzo – La vera cooperazione la facciamo insieme”.
Un dato che spesso “destabilizza” le persone è, in realtà, proprio scoprire che gli abiti vengono venduti e non donati. “Ma per esperienza diretta – prosegue la responsabile comunicazione - una volta spiegato il meccanismo le persone si rendono conto della sensatezza di questo passaggio della filiera. Le persone di norma credono, per tradizione, che gli abiti conferiti nei contenitori vadano direttamente ai poveri. Il vestito venduto, invece, può essere uno strumento per ottenere risorse maggiori per realizzare diversi obiettivi“. Certamente è bene distinguere con attenzione tra gli operatori: c’è chi ha finalità commerciali (legittime se dichiarate), chi devolve piccolissimi importi ad associazioni (di cui appongono gli adesivi sui contenitori), ma che vengono usate come esca per attirare i donatori pur restando la finalità di lucro quella principale. E poi ci sono le cooperative che creano lavoro, spesso per categorie svantaggiate, e infine operatori come Humana o la Caritas che investono gli introiti in progetti sociali o ambientali. Serve dunque chiarezza e per questo Humana, conclude Tiozzo, “grazie alla propria filiera si impegna sempre a rispettare il mandato del cittadino che, con grande generosità, conferisce i propri indumenti nei nostri contenitori”.
Gian Basilio Nieddu