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Il castagno plurisecolare di San Francesco da Paola, ultimo superstite di un bosco scomparso

aprile 2, 2013 Racconti d'Ambiente, Rubriche

Proseguono i racconti della serie “Giona degli Alberi“, scritti in esclusiva per Greenews.info da Tiziano Fratus, il cercatore di alberi in viaggio alla ricerca degli alberi monumentali italiani. La settima puntata è dedicata al castagno di San Francesco da Paola, e fa parte di un reportage sui grandi alberi della Sila, in Calabria. L’editore Kowalski ha intanto pubblicato l’ultimo libro di Fratus, il “Manuale del perfetto cercatore d’alberi”, una guida pratica e “filosofica” per tutti coloro che vogliono coltivare quella tensione alla ricerca della natura che alberga in ciascuno di noi.

Che alberi ci saranno in Calabria? Questo mi chiedevo, ruminando le mie ipotesi mentre salivo in aereo all’aeroporto di Caselle alla volta di Lamezia Terme, una città che non avevo mai capito bene dove si trovasse, con questo suono accogliente, nella seconda parte, Terme, che mi ricorda le Terme della città dove ho studiato e dove per la prima volta mi sono innamorato, Acqui Terme, da adolescente, e le altre località visitate negli anni, per riposo o per alberografie nei parchi e nei giardini (ad esempio Salsomaggiore).

Non pensavo agli alberi più famosi e conosciuti della Calabria, bensì a quelli che ancora non sono stati accuratamente documentati, che nei libri non si trovano. Avevo raccolto immagini e testi inerenti i “Giganti” della Sila, questo misterioso ammasso montano al centro del sud Italia, i pini neri larici (Pinus nigra var. laricio) che qui ancora dominano da alcuni secoli; sapevo degli oltre trenta esemplari di Ficus macrophylla di origine australiana che a fine Ottocento sono stati piantati nella striscia botanica e lungo la Marina di Reggio Calabria, e che oggi sono ben cresciuti e ben amati dai cittadini; sapevo delle grandi querce di Rossano Calabro, dei castagni di Lagarò e del celebre pino di Scuto, uno dei maggiori d’Italia, piantato nel 1783 dal medico Saverio Tornatora, e infine sapevo del Pollino, coi citatissimi pini loricati che svettano fra Basilicata e Calabria. Eppure ero certo, come accade sempre, che avrei avuto modo di vedere qualcosa di nuovo, di non descritto, di ancora “sconosciuto”, se così si può dire, oltre i confini locali.

L’aeroporto di Lamezia è piccolo, mi attende un ragazzo che lavora al Parco Nazionale della Sila, dove la direzione ha deciso di darmi ricovero per i tre giorni di visita. Ne ho sentito parlare molto bene – del parco e della direzione – pare sia un’eccellenza del settore. Da uomo del profondo Nord dubitavo di questa presunta efficienza, di questa eccellenza, ma alla fine mi sono dovuto ricredere: tutto quello che mi era stato detto è vero, anzi, addirittura una sottostima. In un’ora e mezza si passa dalla costa mediterranea ad un ambiente di neve, vento, montagna, gole, autostrade che salgono, gallerie, piccoli comuni ad una via centrale che tanto mi ricordano le Alpi, del Piemonte, della Valle d’Aosta, del Trentino.

A Camigliatello, una delle località interne al parco e meta del turismo invernale quanto di quello estivo, troviamo una rosticceria aperta, ordino un pezzo di pizza e due pezzi di carne con le patate silane, la specialità del posto, di cui non avevo mai sentito parlare prima. Dicono che siano squisite… Il ragazzo del Parco mi accompagna in una struttura interna al centro visite “Il Cupone”. Dopo un viaggio che ha unito due punti estremi del paese mi attende un appartamento tutto per me, dove finalmente mi posso rilassare. Una gentilezza davvero inattesa. E finalmente, dopo essermi cambiato e messo comodo, i denti possono affondare nelle patate silane, le papille gustative ne assaporano la compattezza e il gusto… deliziose!

La mattina seguente la neve che cadeva è già sparita. Il sole fa capolino fra le fronde delle conifere che qui iniziano a svettare alte e schiette, per citare i celebri cipressi di Bolgheri. Mi avvicino e studio il contrasto fra le fronde allungate e cascanti, che poi si rialzano come capita tipicamente agli abeti rossi, e le pigne, che invece sono “barbute” e assomigliano a quelle di un albero importato dal nord America, la douglasia. A nord però, nel mio Nord, questi alberi vanno su spediti, in cerca di luce e non si allargano in questo abito da contadina sudtirolese. Ne raccolgo una, me la studio e devo ammettere che se non sono abeti di Douglas. Proprio non so cosa siano. Dalla strada spunta una “jeep all’italiana” (ma ormai Jeep è italiana!), una rombante Panda Fiat 4 x 4 verde sottobosco con l’inconfondibile scritta Corpo Forestale, al volante un ragazzo ossuto, moro, due occhi gentili, sorridente, che abbassa il finestrino e chiede «Il giornalista?». Salgo, adocchio una copia di TuttoSport e mi dice che lui a Torino ha dei parenti, che ci ha studiato, che è un tifoso della Juventus. Si chiama Antonio. Incontrerò molti altri calabresi che credono nel medesimo Dio del Calcio in bianco e nero. Una vera colonia! Mi sento un po’ a casa mia. Anche se alla fine, quando sono in un bosco o a contatto con gli alberi sono sempre a casa mia. Colazione a Camigliatello, cappuccio e un delizioso croissant ripieno di cioccolato bianco. Bueno! Poi ci raggiunge un altro forestale, un vero Forestale “secondo tradizione”. Corpulento, come chi scrive, essenziale, con quell’aria da saggio della natura, sempre in groppa a una Panda 4 x 4 verde e bianca. La cavalleria del posto gode della suddetta dotazione di serie.

Puntiamo agli altopiani tipici della Sila Grande, il luogo dove ci troviamo. La Sila è un territorio vasto diviso in tre diversi settori: a nord la Sila Greca, nel centro la Sila Grande, al fondo a sud la Sila Piccola. Ciascun territorio presenta caratteristiche distinte, la Sila Grande abbraccia i comuni maggiori per dimensione ed estensione, l’altopiano oltre quota mille dove stiamo andando, i laghetti artificiali costruiti nel secondo Novecento che assolvono alla funzione di riserve per le estati torride. Qui il paesaggio si spela, si svuota per lasciare spazio al contrasto fra il colore timido della terra e il cielo gonfio di grigi e di tondi. Siamo nel comune di Celico, si raggiunge il bacino del lago Cecita, in località Colamauci. Accanto ad alcuni cascinali, dalla parte opposta della stradina, cresce questa enorme borraccia scura, annerita, che si apre alla base e si gonfia fino agli otto-nove metri. Un antro è scavato alla base, la carie si sta facendo strada nella materia. Combustione – probabilmente da fulmine, sia interna che esterna. Quattro resti di branche è ciò che va a creare una mancata chioma. Produce pochi frutti molto piccoli. Misuriamo la circonferenza: dieci metri e mezzo a petto d’uomo, partendo dalla direzione nord. Muschiatura su parte della corteccia, in direzione del lago. Localmente viene chiamato Castagno di San Francesco, ma non San Francesco d’Assisi, l’eremita San Francesco da Paola, vissuto nel Quattrocento, che qui, in queste terre è il Santo con la esse maiuscola, patrono non a caso del Regno delle Due Sicilie. Durante il viaggio incontrerò anche un pino dedicato al medesimo santo. Discutiamo dell’età, fra i 4 e i 5 secoli, facendo un po’ di paragoni fra grandi castagni monumentali avvistati in giro per lo stivale. Certo, la sua estrema solitudine, circondato com’è da prati e cielo, fa riflettere: qui, fino al principio del XX secolo, c’era un bosco ora completamente scomparso.

Tiziano Fratus

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