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Shale gas, una terza via piena di dubbi (ambientali)

gennaio 24, 2011 Progetti, Rassegna Stampa

Venerdì 21 gennaio l’Eni ha firmato a Pechino un protocollo d’intesa con Petrochina, la più grande compagnia petrolifera nazionale quotata al mondo, che prevede anche lo sviluppo di tecnologie per l’estrazione dello shale gas. Per comprendere meglio le opportunità e le criticità di questa “nuova” risorsa energetica ripubblichiamo l’approfondimento ”Shale gas, la terzia via energetica” realizzato da Vocearancio.it, il settimanale di Ing Direct.      

Un esempio di roccia scistosa, Courtesy of Vocearancio.itShale gas (gas scistoso): una «rivoluzione nel mondo dell’energia, che ha sconvolto il mercato, determinando cambiamenti economici e geopolitici tali da rappresentare davvero una terza via energetica» (Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni).

Lasciate in pace per molti anni perché considerate troppo difficili da sfruttare, con procedimenti che rendono il processo decisamente antieconomico, le cosiddette risorse non convenzionali di gas naturale stanno vivendo un boom che potrebbe portarle a rappresentare una fetta considerevole del bilancio energetico mondiale. Hanno una caratteristica molto appetitosa: si trovano in luoghi diversi da quelli soliti, in molti casi nel sottosuolo di Paesi che attualmente dipendono interamente da forniture estere. E che potrebbero ritrovarsi in pochi anni a godere di una insperata indipendenza energetica.

Lo shale gas è contenuto in una particolare roccia argillosa chiamata scisto. La formazione di questi depositi, caratterizzati da una grana molto fine e da una struttura a lastre sovrapposte, risale a circa 350 milioni di anni fa. Proprio la sovrapposizione dei sedimenti rende facile separare i vari strati, ma in modo orizzontale, parallelamente al terreno. D’altro canto, lo scisto è un materiale molto poco permeabile. Il gas intrappolato al suo interno, quindi, non viene facilmente liberato anche quando si arriva con una trivella.

La scarsa permeabilità e la struttura a strati orizzontali rendono praticamente impossibile scavare un normale pozzo per estrarre il gas contenuto. È necessario che nello scisto si creino una serie di fratture, in modo da liberare gas in quantità degne di essere prese in considerazione. Fino a pochi anni fa l’unico modo era approfittare delle poche fratture già esistenti oppure scavare pozzi in senso orizzontale in modo da aumentare il contatto tra lo scisto e la trivella. Sono sistemi che hanno tenuto in piedi per oltre un secolo una piccola industria di estrazione negli Stati Uniti centrata sui monti Appalachi, ma i margini di profitto sono sempre stati minimi.

Schema di un deposito di gas scistoso, Courtesy of Eia.doe.orgA cambiare il panorama sono oggi le nuove tecniche di estrazione. Prima fra tutte la cosiddetta fatturazione idraulica (fracking, nella definizione inglese). Una volta scavato il pozzo, si inietta in profondità, ad alta pressione, un miscuglio costituito da milioni di litri di acqua, sabbia e centinaia di tonnellate di sostanze chimiche specifiche. Questa operazione libera il gas contenuto, che può essere convogliato in superficie, ma lascia anche un enorme quantitativo di residui tossici.

Proprio quello che si lascia alle spalle il fracking rende molto nervose le autorità di protezione ambientale, per non parlare dei gruppi ambientalisti. Si calcola che solo il 50% dell’acqua utilizzata venga recuperato. Il resto, assieme alle sostanze chimiche, rimane lì sotto, e potrebbe contaminare terreni e falde acquifere.

Altro problema: catturare tutto il gas che viene liberato durante il processo di estrazione. È impossibile sigillare perfettamente i pozzi: una parte finirà nell’atmosfera, e sarà composto in una percentuale notevole da metano, un gas che provoca effetto serra con una potenza 72 volte superiore al famigerato CO2. E c’è da aggiungere l’anidride carbonica che verrà prodotta dalla combustione del gas una volta che lo si utilizzerà. Il totale potrebbe non essere molto incoraggiante. L’argomento è stato sollevato durante un convegno organizzato a settembre dall’Ente Americano per la Protezione Ambientale (Epa) proprio sulla tecnica del fracking.

«Lo shale gas potrebbe avere un impatto sull’effetto serra superiore a quello del carbone. [...] Considerando l’intero processo del fracking e del successivo trasporto ed utilizzo del gas ottenuto l’emissione di gas ad effetto serra che si avrebbe con l’utilizzo dello shale gas potrebbe essere del 60% superiore rispetto al diesel o alla benzina» (Robert Howarth, della Cornell University).

Nonostante questi dubbi, la posta in gioco è talmente alta che tutto il mondo è a caccia di depositi scistosi. Nessuno sa realmente quanto gas di questo tipo possa esserci in giro. Ma il terreno di prova più importante si trova negli Stati Uniti e si estende su ben cinque stati. È il bacino Marcellus. Anche qui i calcoli sono molto vaghi, ma secondo Gary Lash, dell’Università Statale di New York, lì sotto ci sono 14.000 chilometri cubi di gas naturale. Anche se le tecnologie attuali permetteranno di estrarne appena il 10%, si tratta di quantità enormi, che faranno pendere la bilancia a favore di una sempre maggiore autonomia energetica per gli Stati Uniti.

L’Agenzia Usa per l’Informazione sull’Energia (Eia) ha appena rivisto i suoi calcoli e sostiene che entro il 2035 il gas derivato dallo scisto coprirà il 45% delle necessità interne. Le piccole aziende impegnate da anni nell’estrazione dello shale gas si sono scoperte negli ultimi tempi ricchissime di conoscenze e tecnologie che fanno gola ai colossi dell’energia. Le europee Shell, Total, Bp e Statoil hanno tutte avviato partecipazioni con soci americani, mentre iniziano gli studi su bacini scistosi presenti in Polonia, Svezia e Germania, per iniziare.

L’italiana Eni si sta muovendo proprio in Polonia, con l’acquisizione di licenze di estrazione in quel Paese. E i cinesi non sono rimasti a guardare: 26.000 miliardi di metri cubi potrebbero essere nascosti nel suo sottosuolo sotto forma di shale gas, un bottino sul quale la compagnia Sinopec ha già messo le mani. Il primo risultato di questa rivoluzione annunciata è l’abbassamento dei prezzi sul mercato mondiale del gas. Con una disponibilità potenziale enorme come quella prospettata dai depositi scistosi, le riserve convenzionali cominciano ad essere meno preziose. A farne le spese sono i principali produttori tradizionali, a cominciare da Russia, Iran e Algeria. Quello che sembrava un mercato sicuro comincia a sgretolarsi di fronte alle prospettive dello shale gas. Anche se la partita è tutt’altro che chiusa. È infatti prevedibile che le preoccupazioni ambientali si faranno sentire, soprattutto in Europa, dove l’alta densità di popolazione sul territorio creerà molti problemi quando si tratterà di avere a che fare con l’inquinamento del suolo causato dalle procedure di fracking.

Un’altra grana potrebbe arrivare sulla testa dei giganti del gas naturale: gli idrati di metano. Ultimi arrivati sulla scena, sono formazioni nelle quali l’acqua congela formando una vera e propria gabbia attorno alle molecole di metano. Somigliano un po’ a neve che si sta sciogliendo e sono stati trovati per la prima volta nel permafrost delle regioni artiche. Ma il fondo del mare delle regioni più a nord potrebbe esserne ricchissimo. Al punto che il servizio geologico degli Stati Uniti ipotizza che potrebbero superare, in termini di energia ricavabile, le riserve di petrolio, carbone e gas di tutto il mondo. Le tecnologie di estrazione sono ancora agli inizi, e non si sa praticamente nulla dei pericoli ambientali. Ciò non basta a scoraggiare investimenti nel settore, alla continua ricerca di quell’energia “ponte” che dovrebbe sostenere lo sviluppo mondiale fino alla maturazione delle energie rinnovabili.

http://vocearancio.ingdirect.it

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