La tecnologia fa sempre bene all’ambiente? I risultati di una ricerca EEA
La diffusione delle nuove tecnologie, è bene chiarirlo, non è sempre positiva. Spesso provoca, infatti, effetti collaterali che portano ad un aumento, invece che ad una riduzione, dell’impatto ambientale.
Su questo paradosso verte l’ultima ricerca dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) dal titolo “Late Lessons from Early Warnings, volume II”. A distanza di dodici anni dall’ultimo report dedicato all’argomento il mondo è profondamente cambiato. Le nuove tecnologie prendono piede più rapidamente di prima. Questo significa che i rischi possono diffondersi più velocemente e più lontano, superando la capacità della società di comprendere, riconoscere e rispondere a questi eventi in tempo utile per evitare danni. Gli esperti puntano il dito contro i segnali premonitori di questi fenomeni, che vengono spesso ignorati fino a quando i danni alla salute e all’ambiente diventano inevitabili.
Attraverso casi specifici viene mostrato come segni di pericolo, rimasti inascoltati, hanno portato a morte, malattie e distruzione ambientale. Avvelenamento da mercurio industriale, problemi di fertilità causati da pesticidi, prodotti chimici ormonali nella comune plastica, impatto dei prodotti farmaceutici che stanno cambiando gli ecosistemi, sono solo alcuni degli esempi citati. Tuttavia, la relazione esamina anche segnali di allarme che emergono da tecnologie attualmente in uso, inclusi i telefoni cellulari, gli organismi geneticamente modificati e le nanotecnologie.
In primo luogo la scienza dovrebbe avere l’umiltà di riconoscere la complessità dei sistemi biologici e ambientali, in particolare quando ci possono essere molteplici effetti contemporaneamente. È sempre più difficile isolare un singolo agente e dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che esso non provoca danni. Una visione più olistica, multidisciplinare potrebbe migliorare la comprensione e la prevenzione di rischi potenziali. I responsabili politici dovrebbero, inoltre, rispondere ai sistemi di preallarme più rapidamente, in particolare nei casi di tecnologie emergenti su larga scala. Si raccomanda, a questo proposito, l’uso più ampio del “principio di precauzione”, per ridurre i rischi in caso di tecnologie e prodotti chimici nuovi e in gran parte non testati. L’incertezza scientifica non deve, infatti, essere una giustificazione per l’inazione quando vi è la prova plausibile di un danno potenzialmente grave. Si propongono, poi, sanzioni economiche per coloro che causano un eventuale danno. L’Agenzia chiede, infine, nuove forme di governance che coinvolgano i cittadini nelle scelte circa i percorsi di innovazione e analisi del rischio. Ciò contribuirebbe a ridurre l’esposizione a pericoli, favorendo l’innovazione.
La tecnologia, d’altro canto, può essere anche amica dell’ambiente. È il caso degli investimenti fatti dalle Istituzioni UE nel settore del trattamento delle acque reflue. Dove si sono registrati significativi passi avanti. “Il trattamento delle acque reflue è un test fondamentale per la società. Sono soddisfatto di vedere che le tendenze vanno nella direzione giusta”. Così Janez Potočnik, Commissario per l’Ambiente, ha commentato le ultime cifre europee. L’ultima relazione della Commissione Europea evidenzia, infatti, miglioramenti nella raccolta e nel trattamento. Il 91% del carico inquinante proveniente dalle grandi città UE beneficia, infatti, di un controllo più rigoroso, notevole risultato rispetto alla situazione descritta nella relazione precedente (77%). Inoltre, la minor quantità di scarichi di acque reflue non trattate nell’ambiente hanno indubbiamente consentito di migliorare la qualità delle acque di balneazione. Vent’anni fa, infatti, solo il 60% circa dei siti marittimi vantava acque di qualità eccellente, mentre oggi tale cifra è pari al 78%. La parte del territorio UE designata come “area sensibile” registra, infine, un aumento di due punti percentuali, raggiungendo quasi il 75%. L’aumento maggiore si è registrato in Francia e in Grecia. Il merito dei risultati ottenuti va anche, senza dubbio, all’operato della Commissione, che associa misure di sostegno finanziario a, se necessario, azioni legali. Basti pensare che dal 2007 al 2013 sono stati fatti investimenti di sostegno da parte dell’UE per un importo pari a 14,3 miliardi di Euro. Rimangono, tuttavia, notevoli le differenze tra gli Stati membri.
Secondo la legislazione UE del 1991, i Paesi devono dotarsi di sistemi di raccolta delle acque reflue urbane e garantire che l’acqua che entra nei sistemi di raccolta subisca un opportuno trattamento per rimuovere le sostanze inquinanti. Possono essere, infatti, contaminate da batteri e virus dannosi rappresentando, così, un potenziale rischio per la salute pubblica. Esse contengono, tra l’altro, nutrienti come l’azoto e il fosforo che possono danneggiare le acque dolci e l’ambiente marino favorendo l’eutrofizzazione: la crescita eccessiva di alghe, che soffocano altre forme di vita. La Direttiva prevede, inoltre, un “trattamento secondario” più rigoroso dedicato ai bacini idrografici particolarmente sensibili, come, per esempio, i siti di balneazione o le riserve di acqua potabile. Per gli Stati membri dell’UE-15 tutti i termini stabiliti dalla Direttiva sono scaduti, ma gli Stati membri dell’UE-12 hanno beneficiato di tempi più ampi.
Ad oggi, il tasso di raccolta è molto elevato: per ben 15 Paesi si attesta al 100% del loro carico inquinante totale. Medaglia d’oro ad Austria, Germania e Paesi Bassi. Tutti hanno mantenuto o migliorato i risultati già ottenuti, sebbene il tasso di conformità sia tuttora inferiore al 30% in Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia e Slovenia. I tassi di conformità per il trattamento secondario sono invece pari all’82%, con un aumento di 4 punti percentuali. Enormi sono però le differenze tra l’UE-15, dove i valori sono compresi tra il 90 e il 100% e l’UE-12, dove in media la conformità era del 39%.
Non è infatti tutto oro quello che luccica. In un allegato si confronta la situazione delle 27 capitali europee: solo 11 sono dotate di un adeguato sistema di raccolta e di trattamento, nonostante il fatto che le norme siano state fissate da più di vent’anni. Verso l’Italia pendono poi procedimenti disciplinari da parte della Commissione perché gli investimenti nel settore sono bloccati e il sistema è poco razionale. Mancano il 15% della copertura fognaria e il 30% di quella depurativa. Sono ancora molti i comuni, nel nostro Paese, che non hanno, né depuratori né fognature. E gli sprechi sono tanto consistenti – rimprovera l’UE – da determinare un impatto ambientale inaccettabile.
Beatrice Credi