La ragazza nel sasso
Ero arrivato fin lì, lasciandomi dietro un fardello di orari, di fogli, di numeri, di voci, di volti. Mi ero scrollato tutto di dosso. Ora ero solo, con lo zaino in spalla. Addossandomi la massa del mio corpo e del bagaglio, su queste montagne avrei capito il vero peso della mia anima, la sostanza che stava evaporando nello smog della città. Mi avevano detto che in Himalaya il limite delle nevi perenni si trovava a circa 5.000 m. Ero sulla buona strada, o comunque sentivo di esserlo, poi chissà, ero da solo. E questo mi bastava per essere felice. Ogni passo verso la meta incarnava l’importanza di questo mio eremitaggio. Ogni passo era studiato, vitale. Una boccata di ossigeno. L’inspirazione si faceva sempre più difficile ed era preziosa tutta l’aria che riusciva a riempire i miei polmoni. Intorno a me, i contorni delle montagne, l’oscurità profonda, disegnata di miraggi nepalesi, freddi ma confortevoli.
Ogni notte, alle quattro, mi svegliava lo stesso sogno: un bambino, con le mie fattezze da piccolo, che chiedeva alla mamma dove finiva il mondo. La mamma che accarezzandogli la testa, gli rispondeva: “all’orizzonte dove non vedi più nulla. Lì finisce il mondo e se hai il coraggio vai a vedere”. Il bambino rispondeva di aver paura ad allontanarsi da lei. La mamma allora lo abbracciava e gli diceva che quando sarebbe stato grande avrebbe di sicuro trovato il coraggio per andare oltre l’orizzonte, al di là dei confini di quella linea, gli rispondeva che avrebbe girato il mondo e sarebbe diventato un esploratore famosissimo. “Più di Marco Polo?” chiedeva il bambino. “Si, mille volte più di lui” rispondeva la mamma. “Davvero, mamma, lo prometti che diventerò un ‘giramondo’ e vedrò tutte le terre scoperte?”, “Te lo prometto”.
Questo era il sogno ricorrente da quando ero partito e più che sogno la chiamerei, reminescenza, perché quel dialogo aveva davvero avuto luogo.
Non ero diventato esploratore in giro per i mari, avevo fatto ragioneria ed ero contabile presso un’azienda a Torino. Quella promessa però mi girava per la testa. La mamma mi aveva dato la sua parola, sarei diventato esploratore e allora ecco che a ventinove anni, senza un soldo, se non la minima paga d’impiegato, senza allenamento, ero partito per il trekking sull’Himalaya alla ricerca delle nevi perenni, allontanandomi sempre di più dal mio piccolo ufficio fumoso di via Torricelli. In quel momento ero lontano e avevo in me la fatalità degli orientali.
Ero giunto in un prato grande e in pendenza. Erano ore che non incontravo anima viva ed ecco che mi si visualizzava davanti come in un’allucinazione una ragazza. Capelli lunghissimi, neri, abbracciati fra loro in una treccia che non si chiudeva con nessun elastico. Aveva gli occhi allungati, come le altre donne che avevo incrociato per le strade di Kathmandu prima di iniziare il trekking, ma i suoi erano più docili e ingenui. Stava fregando un panno bianco con una pietra. Mi ha guardato e ha sorriso. Non c’era diffidenza nel suo atteggiamento e allora mi sono avvicinato per chiederle la strada. Ho provato in inglese, francese, tedesco, italiano e col po’ di nepalese che mi aveva insegnato la Lonely Planet prima di dimenticarla, impregnata di Dal bhat (il piatto tipico nepalese, una mistura esplosiva di riso, lenticchie e verdure piccanti), nell’ultimo fatiscente ristorante. Niente da fare, sembrava non parlasse nessuna lingua al mondo e mi guardava con espressione interrogativa. Avevo iniziato con i gesti, il linguaggio mondiale dei segni, quando all’improvviso mi ha preso la mano e indicato, insieme a lei, un masso gigante, adagiato sul prato. Non capivo. Non poteva essere da quella parte la strada giusta per continuare il trekking. Lei faceva “sì” con la testa, ma non aveva compreso la domanda. Decisi che se ero arrivato lì e avevo trovato quest’essere aggraziato, vestito con abiti leggeri di lino che le accarezzavano la pelle ambrata a soli 2-3 gradi di temperatura o ero già morto o il destino aveva voluto farmi incontrare questa ragazza che non parlava. Allora l’avevo seguita, quando piano mi tirava verso il masso. L’avevamo aggirato e dietro avevo scoperto che c’era anche una porticina. Lei l’aveva aperta e dentro, scavata nella roccia, c’era la sua “casa”. Uno spazio unico, tappeti per terra, teli colorati alle pareti. Faceva caldo e un pentolino bolliva acqua su un fornello alimentato chissà come. L’oscurità dell’interno era lacerata dalla sola luce di una candela al centro e qualche lumino in giro per questa strana dimora di una decina di metri quadrati. Dopo esserci seduti per terra, sempre senza proferire parola, mi aveva passato una tazza con all’interno del the fumante. Prima l’aveva passata davanti alla sua fronte, poi davanti alla mia. Forse stava pregando. Avevo bevuto il the, anche lei l’aveva bevuto. Ci guardavamo di tanto in tanto, quando lei alzava gli occhi dalla sua tazza. Era muta e timida e delicatissima. Finito il the mi aveva preso la mano e se l’era portata al petto, giunta con la sua, come una forma di rituale che avevo visto durante un matrimonio in strada a Kathmandu. Mi aveva accompagnato all’uscita della sua casa dentro la pietra. L’avevo salutata, alla mia maniera, con la mano. Lei mi aveva guardato, come mai nessuno aveva fatto prima d’ora e era sparita di nuovo all’interno del sasso. “Quella era la fine del mondo, mamma, l’ho trovata!”, avrei voluto averla vicina, mia mamma, per raccontarle che finalmente avevo raggiunto i confini dell’orizzonte e avevo avuto il coraggio di oltrepassarli, ero diventato un vero esploratore. Mia mamma mi avrebbe abbracciato, come quando ero piccolo.
L’immagine della ragazza nel sasso mi era rimasta nella testa e negli occhi per tutto il tempo del mio trekking, che dopo quell’incontro era diventato più leggero, meno faticoso in senso fisico e più appagante in senso spirituale. Ovviamente alle nevi perenni non ci sono mai arrivato. Ma ora, nel mio ufficio stretto di via Torricelli, posso sognare gli occhi allungati di una ragazza vestita di vento himalayano e d’aroma di the delle montagne.
Stephania Giacobone